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TOR MARANCIA in pagina cultura edizione nazionale

LA REPUBBLICA

sabato 25 agosto 2001

Di francesco erbani
In quel gioiello di verde e di antico che sembra il Central Park di New York

Anche Roma ha il suo Central Park. Non sono tanti quelli che lo conoscono. Ancora meno quelli che lo frequentano. Qualcuno pensa che sia solo una fetida discarica allietata dagli sterpi. Un insensato buco verde che squarcia un tappeto di palazzi e palazzine. Si chiama Tor Marancia, ed è una sopravvivenza dell'Agro romano, quella vasta estensione di campagna che circonda la capitale col suo paesaggio ondulato - colline basse, spesso tagliate da pareti ripide colorate d'argilla, pini a ombrello e ruderi - raffigurato da Orazio e Virgilio, Pasolini e Gadda. Tor Marancia è un bosco di duecentoventi ettari che con superbia resiste dentro la città, a pochi minuti da Piazza Venezia, stretto fra l'Appia antica e l'Ardeatina. A differenza del Central Park di New York, non è un parco pubblico, ma sfoggia lo stesso pioppi, salici, olmi, lecci secolari e cinque tipi diversi di orchidee. Custodisce vaste praterie ricoperte di equiseto, una pianta che trae alimento dalle marrane, i rigagnoli d'acqua che scorrono fra cannucce, carici e canape, le memorabili "marane" in cui faceva il bagno Alberto Sordi nel film Un giorno in pretura. E' abitato da raganelle, rospi, bisce, granchi d'acqua dolce, gechi, ramarri, muraiole. Percorso da gheppi, nibbi, aironi cinerini, barbagianni, gruccioni, fringuelli, gallinelle d'acqua, tarabusini e picchi rossi. A questo paesaggio umbratile che insinua l'umido nel cuore impermeabile della città edificata, ha legato il suo destino uno degli uomini che dicono più spigolosi della capitale. Adriano La Regina, brizzolato e asciutto, è da venticinque anni Sovrintendente ai Beni archeologici di Roma. "Non è un primato: alcuni miei predecessori sono rimasti su questa poltrona anche trent'anni", dice in una accaldata mattina di agosto sporgendosi dalla finestra del suo ufficio che guarda tutto il Foro romano, fino al colle del Campidoglio. Su Tor Marancia La Regina si è giocato la carriera. Molti ritenevano scontata la sua promozione a direttore generale per l'Archeologia, ma quando si è arrivati al dunque delle nomine, a febbraio scorso, sul suo capo pare abbia pesato la cocciutaggine con la quale si è opposto ad ogni edificazione in quella tenuta. Lì, segati lecci e salici, intubate le marrane, il Piano regolatore che ancora vige a Roma (pur avendo ormai quarant'anni) prevede una colata di due milioni di metri cubi e ventimila abitanti. Nel 1997 La Regina ha imposto su Tor Marancia un vincolo, scontrandosi con l'amministrazione di Francesco Rutelli, che sosteneva si dovessero rispettare i diritti a costruire che i proprietari di Tor Marancia avevano acquisito. Non era la prima volta che fra il sindaco e La Regina scoppiava una burrasca. E non sarebbe stata l'ultima (basti ricordare il sottopasso di Castel Sant'Angelo e il parcheggio del Gianicolo). Tor Marancia è costata cara al Sovrintendente. Dopo aver posto il vincolo, La Regina ha commissionato a tre esperti (un botanico, Carlo Blasi e due urbanisti, Vezio De Lucia e Italo Insolera) uno studio paesaggistico-ambientale che a fine 2000 ha prodotto questa conclusione: a Tor Marancia non deve essere piazzato neanche un metro cubo di cemento, perché va salvaguardata la sua funzione di custode della biodiversità e il suo ruolo di polmone d'ossigeno dentro una città che ha visto crescere le case molto più dei suoi abitanti. La Regina ha sessantaquattro anni. E' taciturno e ruvido. Ma, quando meno è prevedibile, esplode in fragorose e trascinanti risate. Lo chiamano "Signor no". Ha detto no agli spettacoli impropri nel Colosseo, no al Festival dell'Unità a Caracalla, da dove ha sbaraccato anche la lirica (autorizzando solo concerti sinfonici e balletti). Ha visto sfilare una ventina di ministri per i beni culturali - compresi quelli del Psdi reclutati al pari di un passante - e otto sindaci. Ha stracciato il progetto di un centro direzionale a Centocelle, con i grattacieli che si vedevano dal Campidoglio. Ma durante la sua gestione è stata riaperta la Domus Aurea, allestiti Palazzo Massimo e Palazzo Altemps, recuperata la Villa dei Quintili sull'Appia. E il nome di Roma è tornato a rimbalzare sui giornali stranieri associato al suo prezioso scrigno archeologico, provocando un sussulto di inatteso orgoglio civico. Ma perché un Sovrintendente all'archeologia si occupa di verde? "A Roma il verde e l'archeologia sono connessi in modo inestricabile. Il paesaggio della campagna romana è popolato dai reperti e nei tratti conservati mantiene uno straordinario equilibrio di natura e storia: la gran parte dei pittori che fra Sette e Ottocento l'hanno raffigurato hanno sempre colto questo intreccio". E nel caso di Tor Marancia? "A maggior ragione". La Regina squaderna sul tavolo una pianta di Roma. "Guardi. Questo è il Parco dell'Appia antica. Tor Marancia è qui, confina con il parco, insieme formano un'entità paesaggistica unitaria". La legge che nel 1988 ha istituito il parco dell'Appia prevede ampliamenti e gli unici ampliamenti possibili, insiste La Regina, "sono proprio verso Tor Marancia, che miracolosamente è rimasta quasi del tutto intatta. E' uno spazio compatto, senza strade, molto meglio tutelato dell'Appia antica, dove oggi si contano millecinquecento costruzioni abusive e la stragrande maggioranza dei monumenti si trova dentro proprietà private". Il miglior punto per entrare a Tor Marancia è da via Giulio Aristide Sartorio, raccomanda Paolo Virgili del Wwf che organizza visite guidate e insieme ad altri ha curato una mostra e un ricchissimo dossier sulla tenuta. Siamo nel quartiere Ardeatino, alle spalle della via Cristoforo Colombo. Tor Marancia è un prodigio. In fondo si stagliano le alture dei Castelli e davanti agli occhi si spalanca l'armonico profilo delle colline, d'estate sfavillanti di un giallo intenso. Si cammina su un sentiero sterrato che arriva verso la parte più boscosa dove si incontrano forre, grotte, sorgenti in cui l'acqua scorre anche ad agosto, orti, campi coltivati. Tutt'intorno incombono quartieri sorti dagli anni Settanta, zeppi di palazzine o di falansteri ammassati che sporgono su Tor Marancia come per rosicchiare altro verde. Virgili scosta un dito di terra ed ecco che compaiono i tasselli di un pavimento a mosaico. Poco distante emergono tratti di un basolato e i resti della villa dei Numisi, la famiglia dell'aristocrazia imperiale che possedeva molta parte della tenuta, coltivandola a frutteto, uve pregiate e ortaggi. Una campagna di scavi fu avviata ai primi dell'Ottocento e il materiale più prezioso è ora nei Musei Vaticani. Ogni tanto si incrociano i cartelli "proprietà privata" e qualche filo spinato. Tor Marancia appartiene ad alcuni costruttori, i più importanti sono la famiglia Ceribelli e Mezzaroma. Il Comune ha ristretto a circa la metà della tenuta l'area in cui si può edificare, escludendo quella di più stretto interesse archeologico. Ma il vincolo di La Regina vale per tutta Tor Marancia ("è un sistema paesaggistico inscindibile") e sembra che il nuovo sindaco, Walter Veltroni, stia studiando l'ipotesi di trasferire i diritti a costruire in un'altra zona della città, utilizzando il meccanismo della "compensazione". Per La Regina sarebbe una bella rivincita. Il Sovrintendente conobbe Antonio Cederna nei primi anni Cinquanta, durante uno scavo a Pratica di Mare, quando Cederna faceva ancora l'archeologo a tempo pieno. Ed è da allora, ricorda, che sente parlare dell'Appia e di Tor Marancia e di quel cuneo verde che Cederna sognava potesse partire dai Castelli e arrivare fino a Piazza Venezia, mischiando campagna e ruderi, pini e acquedotti. Roma stava crescendo in maniera sregolata, accatastando edifici lungo le vie consolari, senza una direttrice, seguendo solo, come un cane da tartufo, gli interessi della grande proprietà fondiaria e della Società Generale Immobiliare, che progettava un quartiere "di alta classe" dentro la Villa dei Quintili. La battaglia di Cederna ha una data d'inizio, 8 settembre 1953, quando Il Mondo pubblicò un suo articolo intitolato I gangster dell'Appia, primo di una serie infinita di servizi (che valsero a Cederna il nomignolo di "appiomane"). L'idea di quel cuneo verde è rimasta costante: era ispirata ad una concezione dell'urbanistica che impone di far penetrare la campagna dentro la città, invertendo la direttrice già chiara in quegli anni che voleva fosse la città a fagocitare la campagna. Fra i modelli di Cederna e di La Regina non ci sono né l'Atene di Pericle né la Roma dei Flavii. Bensì, appunto, la New York di metà Ottocento dove, costruendo gli edifici di Manhattan su uno schema a scacchiera, ci si rese conto che gli abitanti sarebbero rimasti soffocati. E si decise di inventare il Central Park, trecentoquaranta ettari perfettamente rettangolari di boschi, prati e laghi. Proprio lì, fra la 59a e la 110a, nel cuore della città.

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